Il 14 settembre scorso è stata approvata, in via non ancora definitiva, la Direttiva dell’Unione europea sui salari minimi; dopo la futura approvazione, ci saranno due anni di tempo perché si applichi in Italia con una legge di recepimento e d’attuazione. Il fine principale è di far convergere verso l’alto le retribuzioni minime negli Stati membri, evitando leggi che prevalgano sui contratti collettivi ed anzi privilegiando proprio la contrattazione collettiva. Sono indicati alcuni criteri, e non sarà semplice dato che bisogna confrontare dati non-omogenei, ma il fine della Direttiva si potrà dire realizzato se comunque i minimi saranno aumentati. Difficilmente potranno essere utilizzati i disegni di legge ancora in discussione in Parlamento, palesemente in contrasto con la Costituzione. Se dovesse prevalere una realpolitik, potrebbe essere adottato un metodo misto, con criteri per un minimo fisso uguale per tutti e conferma di una norma “flessibile”, come l’art. 36 Cost., perché i giudici individuino gli altri minimi facendo riferimento indicativo ai contratti collettivi. Restano però molti dubbi di realismo e non solo costituzionali, che potrebbero essere risolti se l’attuazione della Direttiva fosse affidata alle parti sociali, ma è ipotesi difficile perché presuppone un riconoscimento dei sindacati e delle organizzazioni dei datori di lavoro.
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